
A chi non è capitato di leggere libri di memorie che raccontano il lutto dell’autore per la perdita di una persona molto significativa? Perché lo facciamo? Non certo per il desiderio morboso di osservare la sofferenza altrui, anche perché spesso si tratta di racconti molto intensi, la cui lettura a tratti non è affatto semplice.
Ci approcciamo a questi testi narrativi e autobiografici perché ci offrono la possibilità di osservare dall’esterno tutto il processo del lutto senza esserne direttamente coinvolti. Ci permettono di vedere il percorso del Sé del protagonista, dall’iniziale destabilizzazione provocata dalla perdita subita, attraverso il viaggio quotidiano nelle difficoltà di adattamento alla nuova realtà, fino alla riorganizzazione della vita, dovuta anche a una non lineare e sofferta trasformazione del proprio senso di Sé.
Molte di queste memorie iniziano dal racconto del primo istante in cui il mondo cambia, e spesso le frasi sottolineano proprio questo cambiamento repentino e irrevocabile di tutta la propria vita che avviene in un battito di ciglia.
“La vita cambia in un istante. Sei seduta di fronte alla tua cena e la vita, così come tu la conosci, finisce”.
“Un attimo prima sei una mamma normale. Una mamma normale che sta per avere un bambino. L’attimo dopo, sei una donna che ha profondamente fallito nel proteggere la sua creatura e il tuo mondo cade a pezzi”.
Ogni autore che intraprende questa strada autobiografica e decide di raccontare il proprio lutto usa lo spazio del testo come spazio riflessivo, che gli permette di trovare le parole migliori per comprendere e descrivere come si sente, ma anche come spazio condiviso, che permette al lettore di accompagnarlo nella propria trasformazione. Il suo scopo è quindi duplice: osservare se stesso dall’esterno, dal punto di vista del lettore, e raccontare il cambiamento, la propria profonda trasformazione, dando un senso coerente a quanto si è vissuto, ma anche mostrare che, per quanto il lutto sia una esperienza traumatica, disgregante e destabilizzante, è possibile assecondarne il flusso ed uscirne trasformati dopo aver ricostruito la propria vita.
Ciò che voglio sottolineare è che, sebbene scrittori di professione usino la loro arte sia per dare senso alle proprie perdite che con l’ulteriore intenzione di pubblicare il proprio lavoro, la scrittura può comunque aiutare nello stesso modo chiunque abbia sofferto per la morte di una persona significativa. Così come ci dice Zimmerman (Zimmerman, 2002, pp 217-219) nel suo libro “Writing to heal the soul”, ognuno può utilizzare la scrittura per trasformare la propria idea di sé dopo aver sperimentato un lutto intenso.
In che modo?
Prima di tutto, lo scrivere crea contemporaneamente una distanza ma anche una vicinanza con il proprio sé, creando uno spazio che è allo stesso tempo sicuro e aperto ai bisogni esplorativi di un sé in lutto. Inoltre, ciò che viene scritto può rimanere strettamente privato oppure essere condiviso, a seconda dei bisogni di chi scrive. In altre parole, la capacità della scrittura di trasformare il sé non dipende affatto dall’essere dei professionisti o dall’avere dei lettori. È, invece, uno strumento di guarigione straordinariamente flessibile, che permette di contestualizzare il proprio lutto ed esplorare soluzioni diverse al proprio modo di farne esperienza.
Perdere qualcuno che si ama, lo sappiamo, è un evento complesso e estremamente importante nella vita di chiunque. Scriverne permette di vedere se stessi di nuovo inseriti in una rete di relazioni, di osservarsi in un flusso di azioni e di tempo che permette il recupero di un senso di continuità fra il prima e il dopo, fra chi eravamo prima della perdita e chi siamo diventati ora.
La ragione più impellente per cominciare a tracciare parole sun un foglio è quasi sempre la necessità di “digerire” l’enorme quantità di sentimenti dolorosi, di emozioni intense e pervasive, e di trovare uno scopo al passare dei minuti, giorno dopo giorno. Solo più avanti, solitamente, si comprende che il farlo ha offerto la possibilità di continuare ad esistere in un modo che ha dato senso al proprio nuovo sé e ha permesso di sentirsi di nuovo al sicuro nella propria quotidianità, prima diventata improvvisamente estranea.
Ciò che è davvero importante non è essere artisti, non è concentrarsi sulla forma o sulla gradevolezza di ciò che si scrive, non è pensare al giudizio di chi potrebbe leggere. Ciò che conta è lasciar fluire la nostra anima ferita attraverso le dita che si muovono sul foglio o sulla tastiera, lasciar uscire i sentimenti, le emozioni che neppure sapevamo di provare ed essere disposti ad incontrarli, a vederli lì di fronte a noi, nero su bianco, senza farci spaventare dalla loro intensità.
Giorno dopo giorno questo spazio privato di riflessione e di espressione di sé vi aiuterà ad affrontare le difficoltà legate al profondo cambiamento della vostra vita e quando, magari dopo anni, rileggerete tutti i vostri fogli troverete disegnata in essi la mappa del vostro viaggio attraverso il lutto verso la rinascita ad una nuova vita.
Bibliografia
Didion, J. (2006). The year of magical thinking. Sydney: Fourth Estate.
Małecka, K. (2015). The Self Lost, the Self Adjusted: Forming a New Identity in Bereavement Memoirs by American Women. Studia Anglica Posnaniensia, 50(2-3), 156, 162.
Oates, J. (2012). A widow’s story. London: Fourth Estate.
Roiphe, A. (2008). Epilogue. New York: HarperCollins.
Zimmerman, S. (2002). Writing to Heal the Soul (1st ed.). New York: Three Rivers Press.
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